Testimonianze
degli informatori indigeni di Tlatelolco,
raccolte fra il 1550 e il 1555
da fray Bernardino de Sahagún,
Historia general de las cosas de la Nueva Espagna,
Libro XII
Testo nahuatl del Codice Fiorentino (Laur. Medie. Palat. 220, ff. 408r-494r).
Capitolo I: Ove si dice come siano apparsi, come siano stati scorti i segni, i presagi di sventura, prima che gli Spagnoli approdassero qui, in questa terra, prima che ne avessero notizia i suoi abitanti.
Prima che arrivassero gli Spagnoli, dieci anni innanzi, un presagio di sventura apparve una prima volta nel cielo, come una vampa, come una lingua di fuoco, come una aurora. Essa sembrava piovere a gocce minute, come se fendesse il cielo; si allargava alla base, si assottigliava mano a mano che saliva. Fin nel mezzo del cielo, fino al cuore del cielo essa giungeva, fino al più profondo del cuore del cielo saliva. In tal guisa, la si vedeva, laggiù verso oriente si mostrava, scintillava nel cuore più oscuro della notte, sembrava far giorno, e più tardi il sole sorgendo la dissolveva. Aveva avuto inizio in un anno Dodici-Casa. Quando appariva, la gente prorompeva in lamenti, si batteva la bocca, ne era sgomenta, ogni lavoro smetteva.
Un secondo presagio di sventura sopraggiunse qui, a Messico. Da sola, da se medesima andò in cenere, senza che nessuno vi avesse appiccato fuoco, la dimora del diavolo Uitzilopochtli. Era detta sua dimora divina, la dimora designata come Tlacateccan. Allo sprigionarsi del fuoco, subito, le colonne di legno, squadrate, bruciarono. Dal suo interno, divampò la fiamma, la lingua di fuoco, la lama di fuoco. In un baleno, ha divorato l'armatura del tempio. Subito si è lanciato l'allerta: " Messicani, senza indugio accorrete, il fuoco sarà soffocato dai vostri orci d'acqua! " Ma, quando essi vi gettavano acqua, quando cercavano di estinguere il fuoco, esso riavvampava più forte. Non si estinse, tutto andò in cenere.
Un terzo presagio di sventura. Un tempio fu colpito dalla folgore, dal lampo. Altro non era che l'umile dimora dal tetto di paglia che si ergeva su un luogo detto Tzummulco, il tempio di Xiuhtecuhtli. Non a scrosci pioveva, appena cadeva una pioggia leggera, e ciò fu tenuto per funesto presagio. Cosi, si diceva: "Altro non fu che una scintilla del sole, il tuono, nessuno l'ha udito".
Un quarto presagio di sventura. Quando ancora il sole splendeva nel cielo, una cometa cadde, suddivisa in tre parti. Essa sorse dal lato d'oriente, poi sfrecciò verso occidente, come piovessero braci. Molto lontano si stenderà la sua scia, molto lontano giungerà la sua coda. E quando la videro, alto e continuo si levò un mormorio, quasi che un brusio di conchiglia di mare si fosse levato.
Un quinto presagio di sventura. L'acqua si mise a ribollire; non era il vento a sollevarla sulla superficie del lago; era come se da se stessa vorticasse: come se, precipitando, producesse un gorgo. E quando si sollevò, assai lontano si spinse, arrivò fino alla soglia delle nostre dimore, sommerse e distrusse le nostre dimore. Ciò accadde nel grande lago che si stende in- torno a noi, qui, a Messico.
Un sesto presagio di sventura. Sovente s'udiva una donna che vagava piangendo, che vagava gemendo, di notte senza posa gemeva, vagava gridando: "Figlioli diletti, ecco che è giunto il tempo della nostra partenza! " Di tempo in tempo diceva: "Figlioli miei cari, dove mai vi condurrò?"
Un settimo presagio di sventura. Accadde che la gente che viveva sul lago, prese nella rete qualcosa, qualcosa restò impigliato nelle sue reti, un grande uccello cinereo, simile ad un trampoliere. Senza indugi, accorsero a mostrarlo a Motecuhzoma, al Collegio-del-Nero'. Il sole aveva appena iniziato a declinare, da poco aveva percorso la metà del suo corso. L'uccello portava sul capo come uno specchio di forma rotonda, una sfera, come forata nel centro'. In esso si distingueva il riflesso del cielo, gli astri, la costellazione dei Gemelli. E Motecuhzoma fu grandemente turbato quando vide le stelle, e i Gemelli. E quand'egli scrutò per la seconda volta il capo dell'uccello, vi scorse sullo sfondo come della gente che s'appressasse da ogni parte accorrendo, che si fosse mossa a convegno, che venisse disposta alla guerra e veniva portata da cervi. E subito interrogò gli indovini, i sapienti. Disse loro: " Sapete che cosa ho veduto? Come se la gente s'appressasse da ogni parte accorrendo". Ma subito, quando ancora cercavano di darvi risposta, ciò ch'essi vedevano si era dissolto; essi non dissero più nulla.
Un ottavo presagio di
sventura. Sovente apparivano uomini, rattrappiti, con due teste, su un corpo solo.
E subito venivano portati al Collegio-del-Nero, subito venivano mostrati a Motecuhzoma;
e non appena ne erano ammessi al cospetto, subito scomparivano.
LE ROVINE
DIMENTICATE
di Scott Corrales
Inquietanti
segni inviati dagli dei: colonne ardenti nel cielo, scudi volanti, specchi che
facevano vedere le stelle.
I codici Nahuatl e i giganti che edificarono Teotihuacan.
Immaginate che gli agenti Mulder e Scully di X-Files siano vissuti 500 anni fa
in Messico: l’imperatore Montezuma Xocoyotzin avrebbe potuto incaricarli di scoprire
la verità che si celava dietro l’impressionante numero di eventi paranormali che
affliggeva la potente civiltà azteca nei primi del XVI° secolo e che potrebbero
essere considerati come la più antica ondata UFO delle Americhe. Il "Codex Florentino",
una cronaca dei principali eventi della storia azteca compilata dal frate francescano
Bernardino di Sahagun, basata sulle testimonianze dei nativi, indica la presenza
di un’intensa attività paranormale in Messico fin dal 1502, anno della salita
di Montezuma al trono. Dieci anni prima della conquista spagnola, gli indigeni
increduli videro un gigantesco pilastro che, giorno e notte,
fiammeggiava all’orizzonte. Questo pilastro, secondo i testimoni, "sembrava ancorato
al cielo", ed assumeva una forma vagamente triangolare. Il prodigio durò un anno.
Il fenomeno ricorda la biblica colonna di fuoco che accompagnò gli Ebrei nella
loro fuga dall’Egitto.
Un secondo presagio fu l’improvviso
incendio che rase al suolo il Tempio di Huitzchilopotchli. Questo "fuoco di origine
ignota" bruciò completamente l’edificio, con la stessa intensità dei nostri odierni
ordigni incendiari. L’incendio, di evidente origine artificiale, fu un vero colpo
per la psiche degli Aztechi.
Il terzo presagio, la
distruzione del Tempio di Xihutechutli, avvenne a causa di un "raggio" che cadde
dall’alto in un giorno di nebbia. Anche questo tempio venne completamente distrutto.
Il quarto e forse più importante presagio descrive
invece delle "comete che volavano nel cielo in gruppi di tre" producendo un suono
tintinnante nella loro scia. Anche se si fosse trattato di semplici bolidi o meteoriti,
molto spesso gli attuali investigatori di fenomeni ufologici hanno documentato
casi di UFO che si dividono in tre parti per poi riunirsi, che lanciano scintille
e che emanano un suono ronzante o tintinnante.
Il quinto presagio
fu lo straripamento di un lago senza precedenti piogge o temporali. Le acque si
agitarono e si innalzarono improvvisamente, ricoprendo case e templi, spargendo
dolore inenarrabile.
Il sesto presagio, il più inquietante,
si è radicato nel folklore messicano ed è piuttosto noto. I moderni UFO flaps,
o periodi di intensa attività paranormale, includono rapporti su mostri che vagano
nelle campagne, spesso protetti dall’oscurità notturna. Durante questo fenomeno,
di notte si udiva una voce di donna che piangeva e implorava con tono stentoreo:
"Figli miei! Tutto è perduto... dove vi nasconderò?" Questa terrificante figura
spettrale, nota come "La Llorona" (La piangente) ha rappresentato l’equivalente
messicano dell’Uomo Nero per molte generazioni, e non sono rari rapporti di avvistamento
anche recenti. Gli storici la identificano con la dea azteca Cihuacoatl, ovvero
"Colei che grida di notte". Il particolare suggerisce che si tratti di un fenomeno
paranormale ricorrente, non dissimile da resoconti provenienti da altre parti
del mondo, apparentemente infestate da una o più particolari entità (come il Sasquatch,
lo Yeti, i mostri lacustri d’Europa e d’America o le sirene delle latitudini artiche).
GLI ASTROLOGI DI MONTEZUMA
Anche il settimo e l’ottavo presagio riguardano creature di tipo paranormale, sebbene una sia meno spaventosa dell’altra. Le cronache riferiscono che un uccello alato, di un genere mai visto prima in Messico, venne catturato da alcuni pescatori del Lago Texcoco e portato all’imperatore Montezuma. Il volatile, simile a una cicogna o a un cigno, aveva sulla testa una sorta di specchio rotondo attraverso il quale si vedevano chiaramente le stelle, in particolar modo la costellazione dei Gemelli. Tale creatura, ovviamente, venne giudicata dagli astrologi di Montezuma il più terrificante e disastroso presagio fino allora inviato. Ma l’imperatore era impavido, così guardò una seconda volta nello "specchio" (forse un monitor televisivo?) e vide un grande numero di persone bardate come per andare in guerra, a cavalcioni di strani animali simili a cervi (gli Aztechi non avevano mai visto un cavallo). Vennero chiamati diversi saggi perché esaminassero la strana creatura ma, come sempre accade nel caso di entità paranormali, il misterioso uccello svanì nel nulla. L’ottavo presagio coinvolgeva i mostruosi uomini a due teste noti come Tlacanzolli (letteralmente, in lingua Nahuatl, "uomini divisi"). Visti in molti luoghi ed in diversi periodi in tutto il regno azteco, si credeva il loro apparire annunciasse importanti cambiamenti e il nuovo tipo di esseri che avrebbe abitato tale mondo. In più occasioni questi mostri vennero catturati e trasportati nel palazzo imperiale (immaginate il Bigfoot in catene portato alla Casa Bianca!). Confermando le caratteristiche tipiche degli esseri paranormali, queste creature si dissolvevano nell’aria prima che gli studiosi dell’Accademia Nazionale delle Scienze di allora riuscissero a sezionarle. La conferma di questi eventi sovrannaturali, che culminarono nella conquista del Messico da parte di Cortes, ci viene dai loro acerrimi nemici, i Tlaxcalans, che si allearono con gli invasori e cementarono la loro alleanza attraverso matrimoni misti tra donne Tlaxcalans e Conquistadores. Per più di un anno l’orizzonte si colmò di una strana luminosità che riempì gli indigeni di terrore. Al fenomeno non si trovò alcuna spiegazione e tantomeno alla "nube a forma di imbuto" che si alzò dalle alture della Sierra Matlalcueye fino al cielo. La presenza di un presunto disco volante è confermata anche da due codici Nahuatl: nel 1492 una serie di tremendi terremoti ed un’eclisse solare vennero seguiti dalla comparsa del temuto Moyohualitohua ("Colui che parla nella notte") un enorme "scudo" che tuonava orrendi avvertimenti agli Aztechi ed ai loro sudditi. Per quanto impressionanti possano sembrare, tali avvenimenti si riducono a mere curiosità tenendo conto che il Messico, migliaia di anni prima degli Aztechi, può essere stato visitato da quegli stessi esseri che, più tardi, gli Aztechi avrebbero considerato come i propri Dei.
DEI E GIGANTI
Arrancare nei campi di maguey e nella vegetazione spoglia verso il complesso piramidale di Teotihuacan è quanto di più simile a trovarsi su di un altro pianeta possa capitare al turista comune. Persino in una bella giornata di sole si percepisce chiaramente una certa estraneità nel paesaggio che fa sembrare vagamente spaventose le gigantesche piramidi del Sole e della Luna. In una giornata nuvolosa, l’intera zona e le montagne circostanti sembrano essere state concepite seguendo le descrizioni dei terrificanti regni ultraterreni immaginati da H.P. Lovecraft. Migliaia di turisti visitano Teotihuacan ogni anno, decine di migliaia di cartoline e libri che descrivono questo complesso vengono vendute in tutta la nazione ed oltreoceano, eppure, non sappiamo ancora chi costruì la metropoli di pietra. Gli Aztechi avevano una vera venerazione per questo luogo, che chiamavano "La città degli Dei" non riuscendo infatti ad immaginare chi, se non i numi, potesse aver eretto qualcosa di simile. Il terrore superstizioso impedì agli Aztechi di occupare Teotihuacan e, quando vi giunsero i Conquistadores, il luogo era coperto da densi strati di fango alluvionale. Gli storici affermano che il complesso monumentale venne edificato intorno al 200 d.C. e che venne saccheggiato dai Toltechi nell’856 d.C. Ma alcune prove dimostrano che le piramidi messicane sono molto più antiche di quanto dichiarino gli studiosi. Secondo l’archeologo britannico H.S. Bellamy, per gli scavi di Teotihuacan fu necessario rimuovere strati di terreno che misuravano più di un metro di spessore ciascuno. Lo stesso Bellamy crede che la costruzione delle piramidi risalga approssimativamente al 5.000 a.C. Il mistero dell’origine di Teotihuacan nelle antiche tradizioni viene risolto con la presenza delle divinità (visitatori dallo spazio?) e degli onnipresenti giganti, apparsi prima o poi in tutte le culture del mondo. Un testimone dei tempi coloniali, Fernando de Alba Ixtilxochitl, riferiva nei suoi scritti che "esistevano giganti nella Nuova Spagna (il Messico): le loro ossa si possono trovare ovunque. Gli storici Toltechi li chiamano Quinametzin e narrano che contro di loro sono state combattute molte guerre e che hanno causato grande dolore in questa terra...". Ossa gigantesche, dunque, forse appartenenti a mastodonti o altri mammiferi, ma descrizioni di creature chiaramente non umane abbondano nelle antiche cronache. Fray Andreas de Olmos, citando fonti indigene, sottolinea l’origine "divina" di questi giganti: "I quattro Dei crearono i giganti, uomini molto alti, dotati di forza sufficiente a sradicare gli alberi con le mani... gli Indios hanno di loro impressionanti ricordi e li chiamano Quinametzin Huetlacame, che significa ‘uomini grandi e deformi’". Il cronista delle colonie aggiunge un curioso dettaglio: i giganti avevano paura di cadere, perché gli era impossibile rialzarsi (forse a causa della forza di gravità terrestre?). Secondo la tradizione, i giganti furono incaricati di realizzare i monumenti di Teotihuacan per scopi ignoti. I codici Nahuatl arrivano a menzionare un loro re, Tlatlotl, "che costruì grandi cose e venne considerato un Dio". E una ulteriore cronaca descrive come Xelhua, un altro gigante, costruì una colonna artificiale "di forma piramidale". Stranamente, il Codice Vaticano 3738 raffigura proprio uno di questi giganti.
RESTI DI CREATURE GIGANTESCHE
La presenza di giganti nell’ufologia
contemporanea, soprattutto in America Latina, non può venire sottovalutata: esistono
alcuni rapporti che parlano di creature alte più di tre metri e mezzo, avvistate
in Brasile ed in Argentina. Potrebbe trattarsi di esseri di altri mondi affini
ai giganti che costruirono le imponenti piramidi messicane? Lo scrittore francese
Michel Cargese ha esplorato l’aspetto del fenomeno che vede i giganti come maestri-costruttori
ed ha fornito come prova un set di attrezzi preistorici scoperti ad Agadir, in
Marocco: il set di strumenti, vecchio di 300.000 anni, era stato concepito per
venire usato da un operaio con le mani di un uomo alto circa quattro metri e mezzo.
Cargese aggiunge che anche le altre opere ciclopiche sparse in tutto il globo
sono state il frutto del lavoro manuale dei giganti. Per timore che il lettore
confonda tutto questo parlar di giganti con le dicerie che permeano parecchi articoli
di criptoarcheologia, sarebbe importante far notare che resti fisici di creature
gigantesche si continuano a rinvenire anche ai giorni nostri. Nel 1975, l’ufologo
messicano Pedro Ferriz visitò la città di Calvillo, ad Aguascalientes sulla costa
del Pacifico, per esplorare alcuni antichi petroglifi appartenenti a Victor Martinez,
un proprietario terriero locale. Martinez non sapeva cosa pensare dei petroglifi,
che reputava portassero cattiva sorte proprio come "la storia dei giganti". Ferriz
gli chiese di spiegarsi meglio e Martinez disse che tempo addietro, mentre arava
il campo, aveva rinvenuto le ossa di due uomini di incredibile altezza. Martinez
allora andò nel paese di Calvillo per notificare alle autorità il suo ritrovamento,
solo per essere accusato dell’assassinio dei due giganti dalla polizia, che voleva
imprigionarlo! Venne fissata la cauzione, Martinez la pagò, ritornò alla fattoria
e incenerì le ossa.
Lo sfruttamento degli indios con l' encomienda (1503)
Già Colombo aveva fatto ricorso alla forza per affermare la propria autorità nelle prime isole scoperte, e non aveva esitato a fare schiavi gli indiani che riteneva di mala natura o che rifiutavano il dono della sua civiltà. Ma fu soltanto dopo di lui che la violenza venne istituzionalizzata, e con questa lo sfruttamento spietato della mano d'opera indiana, soprattutto con il lavoro coatto nelle miniere. Nel 1503 la corona avvertì la necessità di regolamentare il rapporto tra coloni e nativi, e lo fece istituendo l'encomienda (affidamento). Gli indiani sarebbero stati ripartiti in gruppi più o meno grandi, riuniti in villaggi e affidati a un encomendero spagnolo; il quale avrebbe avuto cura della loro catechizzazione e del loro disinselvatichimento, provvedendo al tempo stesso ad assicurare - con diritto di vita e di morte sul suo gregge - ordine e giustizia. E il gregge, in cambio di tanti benefici, sarebbe stato sottoposto a regime di lavoro forzato nei campi e nelle miniere dell'affidatario.
...in quella Pasqua del 1514 decide di officiare la messa e di predicare ai coloni di Cuba. Mentre si dispone a preparare il sermone, gli cadono sotto gli occhi certi versetti del capitolo 34 dell'Ecclesiaste; e legge:
" Un sacrificio iniquo è un'offerta macchiata. Dio non gradisce i doni degli empi. Chi offre un sacrificio con i beni dei poveri è come se sacrificasse un figlio al cospetto del padre. Il pane del povero è la sua vita: chi glielo toglie è un assassino... ".
Decide allora all'improvviso di rinunciare alla sua ricca encomienda cubana e, quando sale sul pulpito, le parole che rivolge agli stupefatti spagnoli hanno la stessa durezza di quelle di Montesinos (altro frate ribelle). Condanna l'istituzione dell'affidamento e ingiunge ai coloni di rinunciare immediatamente, sotto pena di eterna dannazione, agli indiani che sono stati loro assegnati. Il che, in quegli anni, era come ordinare la distruzione, d'un sol colpo e fino alle fondamenta, del sistema sul quale si reggeva ormai l'intero mondo coloniale. E convinto, anche grazie all'esperienza tratta dai tentativi sempre frustrati dei domenicani, dell'impossibilità di mutare le cose restando nella colonia, poco dopo parte per la Spagna...
"Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie"
di Bartolomè de Las Casas
Furono scoperte, le
Indie, nell'anno 1492. Cominciarono fin dall'anno seguente ad andare a popolarle
dei cristiani spagnoli, e continuarono a farlo per tutti questi quarantanove anni,
in grande numero. La prima terra ove essi penetrarono al fine di stabilirvisi
fu la grande e felicissima isola Spagnola ( Haiti ), che ha seicento leghe di
litorale. V'è accosto ad essa un'infinità di altre isole assai grandi, sparse
tutto intorno. Noi le abbiamo viste quando erano tutte popolate di nativi, degli
indiani di quelle terre, più numerosi che in ogni altra contrada al mondo. La
Terra Ferma, che dista da quell'isola, nel punto in cui le è maggiormente vicina,
circa duecentocinquanta leghe, ha più di diecimila leghe di costa marina già scoperte,
e ogni giorno se ne scoprono ancora.
I litorali noti fino al 1541 son tanto
pieni di gente che paiono un alveare: si direbbe che Dio vi abbia voluto profondere,
come una marea, la più gran parte dell'umano lignaggio. Tutte queste universe
e infinite genti, di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza malvagità né
doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali e ai cristiani
che servono; e più di ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille,
aliene da risse e da baruffe, da liti e da maldicenze, senza rancori, odi né desideri
di vendetta. E sono di costituzione tanto gracile, debole e delicata, che sopportano
difficilmente i lavori faticosi e facilmente muoiono di qualsiasi malattia: persino
quelli di condizione contadina sono di salute più delicata dei figli di principi
e signori allevati tra noi in mezzo agli agi e alle comodità della vita. E' poi
gente poverissima, che assai poco possiede e ancor meno desidera possedere beni
temporali: per questo non sono superbi, né avidi o ambiziosi. Il loro nutrimento
è tale che quello dei Santi Padri nel deserto non dovette essere più scarso, né
più ingrato né povero.
Vanno in generale nudi, coperte soltanto le lor parti
vergognose; solo taluni portano sulle spalle un panno di cotone quadrato, di un
braccio e mezzo o due per ogni lato. Hanno per letti delle stuoie, o al più dormono
su certe reti appese, che nella lingua dell'isola Spagnola si chiamano amache.
Sono d'intendimento chiaro, libero e vivace, capaci di apprendere docilmente ogni
buon insegnamento.
Hanno dunque grandissima attitudine a ricevere la nostra
santa fede cattolica e ad acquisire costumi virtuosi: nessun popolo creato da
Dio nel mondo ha meno impedimenti a percorrere questa via. Non appena cominciano
ad avere notizia delle cose della fede si fanno così importuni per sapeme di più
e per praticare i sacramenti della chiesa e il culto divino, che a dire il vero
occorre che i religiosi, per sopportarli, sian stati segnatamente provvisti da
Dio del dono della pazienza. Infine, in tanti anni ho sentito dire più volte da
vari spagnoli, laici, i quali non potevano negare la bontà che in quelle genti
si manifesta: " Veramente questo sarebbe stato il popolo più felice del mondo,
se solo avesse conosciuto Dio ". Tra questi agnelli mansueti, dotati dal loro
Creatore e Fattore di tutte le qualità di cui sono andato parlando entrarono gli
spagnoli, non appena ebbero notizia della loro esistenza, come
lupi, come tigri e leoni crudelissimi che fossero stati tenuti affamati
per diversi giorni. Altro non han fatto da quarant'anni a questa parte (e oggi
ancora continuano a fare) che straziarli, ammazzarli, tribolarli,
affliggerli, tormentarli e distruggerli con crudeltà straordinarie, inusitate
e sempre nuove, di cui non si è mai saputo, né udito né letto prima. Alcune di
queste atrocità riferirò più avanti: per ora basti dire che sono state tali che
dei tre milioni di anime dell'isola Spagnola, che noi abbiamo veduto, non ne restano
più di duecento. E l'isola di Cuba, estesa quasi quanto il tratto che separa Valladolid
da Roma, è oggi interamente spopolata. Quanto a San Juan ( Porto Rico ) e alla
Giamaica, grandi e un tempo felici assai, incantevoli, sono tutte e due devastate.
Le isole Lucaie, situate poco tratto a nord della Spagnola e di Cuba, insieme
a quelle che chiamavano dei Giganti e ad altre di varia estensione, sono più di
sessanta. La peggiore di tutte è più fertile e ridente dei giardini del re a Siviglia:
sono le terre più salutevoli al mondo. V'erano in esse oltre cinquecentomila indiani,
e oggi non vi si trova più creatura vivente. Li hanno fatti perire
tutti, fino all'ultimo, traendoli in servitù sull'isola Spagnola perché
vi prendessero il posto dei nativi, che stavan loro morendo di stenti a uno a
uno. Dopo tale vendemmia una nave andò attorno per tre anni a cercar gente in
quei mari, perché un buon cristiano s'era mosso a pietà di quanti vi si potessero
ancora trovare, e voleva convertirli e guadagnarli a Cristo. Non furono rinvenuti
che undici indiani: li ho visti io. Più di trenta altre isole nei dintorni di
San Juan sono spopolate e perdute per la stessa ragione. Tutte queste isole avranno
insieme più di duemila leghe di costa, e sono ora interamente abbandonate e deserte.
Circa la grande Terra Ferma abbiamo sicura notizia che gli spagnoli con le loro
crudeltà e le loro opere nefande, hanno spopolato e devastato tutte quelle spiagge
un giorno affollate di uomini razionali. Veran colà oltre dieci regni più grandi
dell'intera Spagna, ivi compresi il Portogallo e l'Aragona, ed estendentisi per
un tratto due volte maggiore della distanza tra Siviglia e Gerusalemme, che sono
più di duemila leghe: oggi è tutto nella più completa desolazione. Più di dodici
milioni di anime, uomini donne e bambini, son morti nel corso di questi quarant'anni
per la tirannia e le opere infernali dei cristiani, ingiustamente e iniquamente.
La valutazione è certissima e veridica; ma in realtà io credo, e non penso di
ingannarmi, che ne sian periti più di quindici milioni. Due sono state, generalmente
discorrendo, le principali maniere con cui quelli che si sono recati laggiù e
che si chiamano cristiani hanno estirpato e spazzato dalla faccia della terra
tante infelici nazioni. In primo luogo vi son state le guerre ingiuste, crudeli,
sanguinose e tiranniche. Hanno ammazzato quanti potevano bramare la libertà, sospirarla
o anche solo pensarvi, oppure concepire il disegno di sottrarsi ai tormenti che
pativano, vale a dire i signori del luogo e gli uomini: che da sempre le guerre
non lasciano in vita che i giovani e le donne. Poi hanno continuato a uccidere
opprimendo i superstiti con la più dura, la più orribile e acerba servitù cui
uomini o bestie sian mai stasti costretti. A queste due forme di tirannia infernale
si riducono a guisa di compendio, subordinate quasi a un unico genere, tutte le
altre differenti maniere di distruggere quelle genti, che variano all'infinito.
Non da altro mossi i cristiani hanno ammazzato e distrutto tante e tali
anime, in numero incalcolabile, non da altro guidati che dalla sfrenata
brama dell'oro, dal Desiderio di empirsi di ricchezze e di elevarsi ad
alte posizioni, affatto sproporzionate alla qualità delle loro persone. Sospinti
da una cupidigia e da un'ambizione
tali da non trovar confronto sulla faccia della terra, ritrovandosi in contrade
così prospere e ricche, abitate da genti tanto umili, tanto pazienti e facili
da soggiogare, essi non hanno avuto alcun rispetto, considerazione o stima veruna
per gli indiani. Quanto sto per dire corrisponde a verità, ché ne son stato testimone
e l'ho visto per tutti quegli anni: li han considerati non dico alla stregua delle
bestie (piacesse a Dio che come tali li avessero trattati e rispettati), ma dello
sterco che si trova in mezzo alle strade, e ancora peggio.
E' così che hanno avuto cura delle loro vite e delle loro anime, e per questa
ragione creature innumerevoli sono morte senza fede e senza sacramenti. Ed è ancora
verità notoria e accertata, riconosciuta e ammessa da tutti, perfino dai tiranni
e dagli assassini, che mai, in tutta la vastità delle Indie, gli indiani han recato
il minor danno ai cristiani. Li ritenevano anzi discesi dal cielo,
finché non han cominciato e poi continuato a subire, un giorno dopo l'altro, ogni
sorta di ribalderie, di rapine, di assassini, di vessazioni e di violenze.
Dell'isola Spagnola
L'isola Spagnola ( Haiti ), come abbiamo
detto, fu la prima ove i cristiani approdarono e diedero inizio alle stragi e
alle devastazioni di quelle genti; e la prima a essere distrutta e spopolata.
Cominciarono coi prendere agli indiani le donne e i figlioli per farsi servire
e per fame malo uso, e a mangiare i cibi che questi si procuravano con il sudore
e le fatiche loro. Non si contentavano di ciò che essi offrivano di buon grado,
ciascuno secondo le proprie possibilità: che sono modeste, poiché d'ordinario
gli indiani non son soliti possedere più di quanto fa loro bisogno e che possono
procurarsi con poco lavoro. Del resto ciò che basta in quelle terre per un
mese a tre famiglie di dieci persone ciascuna, un cristiano se lo mangia e lo
sciupa in un sol giomo.
In seguito a tante altre prepotenze, violenze
e vessazioni, gli indiani cominciarono a capire che quegli uomini non dovevano
essere venuti dal cielo. E alcuni presero a nascondere le loro provviste, altri
le mogli con i figli, e altri ancora fuggirono nelle foreste per stare lontani
da quella gente dal tratto così acerbo e terribile. I cristiani li prendevano
a ceffate e a pugnate, e li bastonavano fino a che non confessavano dov'eran nascosti
i signori dei villaggi: e così li scovavano. La loro protervia e impudenza arrivarono
al punto che un capitano violentò la stessa moglie del più grande di quei signori,
sovrano dell'intera isola ( presumibilmente il capo Guacanagarì ). Fu allora che
gli indiani cominciarono a cercare il modo di cacciare i cristiani dalle loro
terre e si misero in armi. Ma le armi loro sono estremamente fragili, di poca
offesa, scarsamente resistenti e ancor meno atte alla difesa: tutte le lor guerre
son poco più dei giochi di canne in uso tra noi, se non addirittura dei trastulli
dei bambini. Coi loro cavalli, le loro spade e le loro lance i cristiani si diedero
allora a compiere contro gli indiani tali massacri e tali crudeltà ch'essi neanche
avrebbero potuto immaginare. Entravano nei villaggi e facevano a pezzi tutti,
senza risparmiare vecchi né bambini e sventrando le donne, pregne o puerpere che
fossero: era come se prendessero d'assalto agnelli rifugiati nei loro ovili. Facevano
scommesse a chi sarebbe riuscito a fendere un uomo in due con una sola sciabolata,
a tagliargli la testa d'un colpo di picca oppure a sviscerarlo. Strappavano
gli infanti dai petti delle madri, e tenendoli per i piedi ne fracassavano le
teste contro le rocce. Altri se li gettavano dietro le spalle precipitandoli
nei fiumi con grandi risate e motteggi, e stavano poi a osservare la creatura
nell'acqua dicendo: " Corpo di mille diavoli, guarda come scodinzola ". Altri
li infilzavano con la spada insieme alle madri e a quanti si trovavano innanzi,
come in uno spiedo. Costruivano lunghe forche, alte in guisa che le punte dei
piedi dei suppliziati sfiorassero appena la terra, e di tredici in tredici, in
onore e reverenza del nostro Redentore e dei dodici apostoli, mettendovi sotto
legna e fuoco, li ardevano vivi. Ad altri legavano o appendevano a tutto il corpo
della paglia secca e vi appiccavano fuoco: e in questa maniera li facevano morire.
Ad altri ancora, e a tutti quelli che prendevano vivi, tagliavano le mani lasciandole
loro spenzolanti dai moncherini, e dicevano: " Andate a portar lettere "; come
a dire che andassero a recar notizie alle genti che si erano rifugiate nelle foreste.
I nobili e i signori li facevano quasi tutti perire alla stessa maniera. Li legavano
su graticole fatte di pertiche poggiate su quattro forcelle e accendevano sotto
tutto il lor corpo un fuoco lento perché, gettando urla dìsperate in mezzo a quei
tormenti, rendessero l'anima a poco a poco. Una volta che tenevano a bruciare
a quel modo quattro o cinque signori d'importanza (e se ben ricordo v'eran nei
pressi altre due o tre paia dì graticole sulle quali ardevano altri uomini), siccome
andavan gettando altissime grida, il capitano, o per compassione o perché gli
disturbavano il sonno, comandò che venissero strangolati. Ma il bargello, il quale
era più malvagio del carnefice che li abbrustoliva (e io so come si chiamava:
ho persino conosciuto certi suoi parenti a Siviglia), non volle farlo; mise anzi,
di sua mano, dei bastoni nelle lor bocche per soffocame gli urli, e poi attizzò
il fuoco finché morirono come lui voleva, bruciati lentamente. Le cose che vengo
-raccontando, e infinite altre, le ho viste con i miei occhi.
Tutti quelli
che riuscivano a fuggire si rifugiavano nelle foreste o si inerpicavano sulle
montagne a cercar scampo da uomini tanto inumani e spìetati, da belve così sanguinarie,
da quei distruttori e nemici mortali dell'umano lignaggio. Furono allora allevati
e ammaestrati certi levrieri, cani ferocissimi che appena vedevano un indiano
lo facevano fuori in un ave: gli balzavano addosso e lo divoravano come se fosse
un cinghiale. Con questi cani si son compiute grandi stragi e carneficine. E poiché
alcune volte, poche invero e di rado, accadeva che gli indiani, con giusta ragione
e santa giustizia uccidessero dei cristiani, questi decretarono che per ognuno
dei loro ammazzato si mettessero a morte cento indiani.
Dell'isola di Cuba
Nell'anno 1511 gli spagnoli entrarono nell'isola di Cuba," che s'estende in lunghezza, come ho già detto, per un tratto eguale alla distanza tra Valladolid e Roma. Vi trovarono grandi e popolose province, dove cominciarono e finirono le loro opere nei modi ormai noti, anzi, con molta più crudeltà. Ma accaddero qui cose degne d'essere ricordate. Un cacicco, signore di grande importanza, che aveva nome Hatuey, era passato dall'isola Spagnola a Cuba con molte delle sue genti per trovar scampo dalle calamità e dalle azioni disumane dei cristiani. E qui un giorno certi indiani lo informarono che gli spagnoli stavan giungendo anche a Cuba. Egli riunì i suoi in gran numero, si che quasi nessuno ne mancava, e disse loro: " Saprete già come corra voce che stian venendo i cristiani, e non sarete certo all'oscuro di quel che han fatto ai signori tale e tale e tale; ebbene, quella gente di Haiti (che è l'isola Spagnola) ha ora in mente di venir qua per continuare a condursi nella medesima maniera con noi. E sapete perché lo fanno? ". Risposero: " No, ma sappiamo che sono di natura crudele e malvagia ". E lui riprende:
" Non è solo per questo, ma anche perché v'è un dio che amano molto e che adorano; ed è per averlo da noi onde adorarlo che si dan tanta briga per sottometterci e ci uccidono".
Aveva presso di sé un piccolo canestro pieno di gioielli d'oro e disse:
"Ecco qui il dio dei cristiani"
Festeggiamolo, se volete,
con degli areito (che sono balli e danze): chissà che in questo modo non lo si
contenti, sì che ordini ai cristiani di non farci del male ". Tutti risposero
ìn un sol grido: " E' giusto, è così ". Danzarono davanti all'oro fino a esserne
stanchi. Dopo di che il signore Hatuey disse: " Ora ascoltate. Comunque vadano
le cose, se ce lo teniamo finiranno coll'ammazzarci per portarcelò via: gettiamolo
nel fiume ". Furono tutti dell'avviso che cosi si facesse sicché buttarono il
canestro in un gran fiume che scorreva lì appresso. Questo cacicco e signore andò
sempre fuggendo dai cristiani dacché questi giunsero all'isola di Cuba, perché
li conosceva bene, e teneva loro testa quando li incontrava: ma alla fine lo catturarono.
E solo perché fuggiva da gente tanto iniqua e crudele, perché si difendeva da
chi voleva ammazzarlo e angariarlo a morte con tutta la sua gente e la sua discendenza,
lo bruciarono vivo. Legato già al palo, un frate di San Francesco, sant'uomo che
viveva in quella contrada, gli andava dicendo nel brevissimo tratto concesso dai
carnefici certe cose di Dio e della nostra fede, di cui egli non aveva mai inteso
parlare. Aggiunse infine che se avesse voluto credere a quello che gli diceva
sarebbe andato in cielo, dov'è gloria ed eterno riposo; ma che se non l'avesse
fatto gli sarebbe toccato di andare all'inferno a patire eterni tormenti e supplizi.
Quel signore,.dopo avere un poco pensato, domandò al frate se in cielo andavano
anche i cristiani. Il francescano gli disse che sì, certo, quelli buoni vi andavano.
Rispose subito il cacicco, senza più esitare, ch'egli non voleva andarci, che:
voleva andare piuttosto all'inferno che ritrovarsi con coloro
e vedere ancora gente tanto trista e crudele.
Tali sono la fama e
l'onore che han guadagnato Dio e la nostra santa fede grazie ai cristiani nelle
Indie.
tratto da: " Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie " di Bartolomè de Las Casas
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